Gli Investigatori

  • Alexander Blake, ventisei anni, investigatore privato riservato e riflessivo.
  • Ellen Lawliet, ventiquattro anni, studentessa della Miskatonic University con un difficile passato.
  • Janet Holmes, venticinque anni, archeologa forte e determinata.
  • Lilyan Aidil, vent'anni, affascinante e sensibile attrice di teatro.
  • Monsignor Giraud des Chateaubrien, l'autorevole e risoluto arcivescovo cattolico di Arkham.

lunedì 30 novembre 2009

Stanza 31

Janet dormiva nella Stanza 31 del Tiden Arms. Sola, perché Alexander, Lilyan e quell’ombroso del vescovo Giraud erano dovuti andare a Salem per sistemare le faccende legali. Le faccende legali, piene di stranezze; lo zio di Alexander si chiamava Silas, ed era morto cadendo dalle scale. Cadendo dalle scale, si, così aveva detto il coroner; e loro erano venuti ad Arkham perché Alexander aveva ereditato una casa fuori città. Una casa grande in cima alla collina, ai piedi dei monti, circondata dai boschi. Quando Nichols, il rappresentante dello Studio Legale ce li aveva accompagnati, quel giorno, a vedere di cosa si trattasse, si era aspettata una casa per lo meno decente, pensava che Nichols avesse esagerato dicendo che “cadeva a pezzi”, magari voleva costringere Alexander a cedergliela, si sa come sono fatti alcuni avvocati spuntati così, fuori dal nulla, no?
Invece la casa era proprio brutta, cadeva veramente a pezzi. Le assi di legno, dappertutto, erano divelte e rovinate, ragnatele ovunque, in certi punti della casa la polvere sembrava un mare. E poi, certo, la cosa peggiore; il bagno. Lei e Lilyan erano entrate assieme ad Alexander, per vedere cosa ci fosse dentro; non l’avessero mai fatto, dannazione.
Il bagno della scuola” aveva pensato subito. Si, il bagno della scuola elementare in cui era andata da piccola aveva un odore simile a quello; quando l’aveva sentito si era chiesto se quel tanfo si meritasse l’aggettivo “di escrementi”, più consono al suo rango sociale alla sua educazione, oppure se fosse giusto chiamarlo “puzza di merda”. Aveva optato per la seconda. Era giusto così.
Già era terribile questo, che vomitassero. Vomitare non era bello; non era bello esteticamente, perché inzaccheravi il pavimento con tutto quello che avevi mangiato- Dio, che avevi mangiato. E poi, non era bello perché era violento. Come se qualcuno ti avesse infilato una mano in gola per portarti fuori tutto quello che hai dentro. Violenza, aveva pensato Janet. Si ricordò che, da piccola, al suo settimo compleanno, aveva vomitato la torta. Era stato terribile, era scoppiata a piangere e aveva sperato che la madre corresse a coccolarla dopo una cosa tanto brutta; invece, guarda un po’, la mamma l’aveva sgridata e le aveva dato uno scappellotto sulla testa… meno male che bambina non lo era più.
Poi, era successa l’altra cosa. Ma quella che era stata una sciocchezza, senza dubbio. Uno spavento tremendo, certo, ma senza dubbio irreale; forse, una svista. Certo, le sviste non si hanno in due… lei e Lilyan avevano veramente visto qualcuno, nel bosco, dopo che erano uscite fuori a prendere una boccata d’aria per riprendersi. Però era stato un flash. Non voleva più pensarci.
Ora voleva andare in bagno, si era svegliata apposta, nel cuore della notte, perché doveva andarci. Doveva essere veramente molto tardi, accidenti. Per strada sembrava che non girasse nessuno. Le due, le tre? Forse anche prima. Arkham era piccola, che diavolo c’andava a fare la gente in giro alle tre del mattino? Non c’era nulla di ché, ad Arkham.
S’infilò le grandi pantofole, poi si mosse verso la porta chiusa. E allora, si fermò.
La luce era accesa, fuoriusciva da sotto la porta. Ecco, era successo: talmente stanca da dimenticarsela accesa quando si era andata a lavare i denti. Tombola. Ci rise su, tutto sommato che altro poteva fare? Ciabattò fino alla porta; e lì, qualcosa la portò a chinarsi davanti alla serratura per guardarci dentro.
Perché? Perché si, non c’era motivo, voleva farlo. Dentro il buco della serratura era tutto buio. Ma se sotto si vede spuntar la luce… ah, già, che stupida… la chiave dentro. La chiave è rimasta infilata dall’altra parte.
Aprì.
Ora, si chiedeva, perché questo?
Guardò dentro la stanza; guardò verso il grande specchio sopra il lavandino. Dritta di fronte a sé.
Cosa mi ricorda…
Perché, ora, si ritrovava davanti qualcosa di così folle? Perché?
Cosa diavolo mi ricorda…
Il volto. Ciò che era apparso nel grosso specchio, il cui vetro si era fatto scuro (“fuliggine”?), era un volto umano. Anziano e barbuto. Imperioso, metteva soggezione; gli occhi, gli occhi erano grandi e spalancati; la guardavano. Spiritati, la guardavano. Sembrava un film del cinematografo, ma era… più vero.
Perché questo? Che cosa… è lui, nello specchio?
Ma era dentro la stanza? No, non era dentro la stanza, non era un riflesso, perché la fuliggine aveva oscurato tutto; e poi, il volto era troppo grande… troppo grande… e non aveva il collo, sotto la testa, e neppure il corpo, niente mani, niente, niente, niente…
È nella stanza, con me! E ora, cosa…
E ora cosa diavolo succedeva? Sentiva freddo ai piedi. Freddo sui calcagni, perché le pantofole erano scalcagnate, di quelle invernali.
Abbassò lo sguardo.
No, non freddo… solo, viscidume… il liquido era caldo, tutto sommato…Caldo come il sangue di cui era riempito il fondo della stanza.
Merda, sangue.
E nel sangue, pesci morti.
Pesci mordi, Dio onnipotente ed eterno.
Pesci morti. Pesci morti. Pesci morti.

Chiuse la porta.
<> urlò, andando verso la porta della stanza. La porta della stanza. La porta. Non quella del bagno, quella faceva male. Tanto male. La porta della stanza, invece, era la salvezza. Salvezza. Salvezza. Aprì la porta
Si svegliò di nuovo nel suo letto, sudata. Nel suo letto, nella sua stanza d’albergo. Al Tidden Arms di Arkham, terzo piano.
Guardò la porta del bagno.
Era spalancata. La luce spenta.