Gli Investigatori

  • Alexander Blake, ventisei anni, investigatore privato riservato e riflessivo.
  • Ellen Lawliet, ventiquattro anni, studentessa della Miskatonic University con un difficile passato.
  • Janet Holmes, venticinque anni, archeologa forte e determinata.
  • Lilyan Aidil, vent'anni, affascinante e sensibile attrice di teatro.
  • Monsignor Giraud des Chateaubrien, l'autorevole e risoluto arcivescovo cattolico di Arkham.

mercoledì 9 dicembre 2009

Tratto da “Cthulhu nel Necronomicon”, di L. Shrewsbury, antropologo statunitense (1913)

“(…)La mia idea, dopo oltre trent’anni di ricerca in giro per il Mondo, è che molti dei miti, delle credenze, dei misteri della Storia umana, non siano altro che componenti periferici e del tutto trascurabili di un mistero ben più grande e importante. Nel 1883, mi trovavo in Cina su invito di un mio caro collega tedesco, il professor Zukberg, per studiare alcune statue votive ritrovate nel Gobi.

Statue, diceva la missiva, aventi “caratteristiche talmente particolari-cito la lettera del mio buon amico- da inquietare anche il più scettico e prevenuto dei nostri colleghi”. Nonostante le difficili condizioni di vita, sperduti in mezzo al deserto e costretti a dormire in un accampamento di nativi per circa quaranta giorni, l’eccitazione prese il sopravvento sulla mia razionalità e calma naturale. Nessuna cultura documentata ha mai prodotto espressioni artistiche di carattere religioso di quel tipo. Ad esempio, la totale assenza di antropomorfismo era indice di una straordinaria anomalia, data l’età a cui risalivano le strane statue, circa la metà del secondo millennio Avanti Cristo. Le statue ritraevano una massa informe, enorme, dai particolari orribili e inquietanti, l’assoluta estraneità a qualsiasi forma conosciuta sul nostro Pianeta. Estraneità tanto grande da non poter essere classificata in alcun modo. Qualche anno dopo, nel 1892, mi recai ad un semplice matrimonio nei pressi di Every, nello Stato di New York; nella calura del pomeriggio, in una delle tante pause dell’interminabile pranzo, andai a fare una passeggiata nel locale museo di Storia Americana, ove era ospitata una vasta mostra sulle tribù di Nativi. Mi imbattei allora in uno strano oggetto votivo, simile a quello che i miei occhi avevano potuto apprezzare nel Gobi. Tutte le sue caratteristiche rimandavano ad esso. I pochi dubbi che avevo vennero colmati quando mi feci spedire una fotografia del reperto dall’Archivio Storico Federale a Washington, dal Settore della Costa Orientale. La storia del reperto fu ciò che mi colpì di più; a differenza di molti altri miti indigeni dimenticati con l’affermazione del cristianesimo nei territori Americani, quella statua venne più volte venerata da alcune comunità utopiste della Valle dell’Hudson, nonostante le ripetute minacce di rappresaglie da parte delle autorità religiose, che sfociarono, nel 1665, in un eclatante processo a Philadelphia, le cui sentenze finali sono però introvabili. Ciò che si sa è che più volte le comunità della sponda orientale dell’Hudson furono sospettate d’essere covi di streghe, e messe sotto inchiesta, proprio nell’area di diffusione della tribù indiana cui apparteneva la misteriosa statua, con modalità simili a quelle di altre città “maledette” come Salem e Arkham. Andando più in profondità, non potei fare a meno di non ricordare altre leggende legate alle tribù che studiai anni prima nel Gobi, i Mowglaj-Bak del Nord, probabilmente in contatto con la tribù cui apparteneva l’idolo cinese-mongolo che il mio buon amico Sukberg mi mostrò anni prima. Tali leggende parlavano di atroci sofferenze inflitte a sette affiliate, con torture e terribili esecuzioni, che ebbero seguito sino ai primi anni del dominio di Gengis-Khan, continuando una tradizione di sangue di circa cinquecento anni. Contattai Sukberg, chiedendogli più informazioni; le persecuzioni non erano molto frequenti fra i Mongoli, anche a causa del carattere “associativo” della fede che non rendeva possibile una contrapposizione in quei termini. Fondai allora una mia personale teoria, collegando queste due realtà storiche così diverse e lontane geograficamente, e mi ritrovai con due possibili manifestazioni di un culto del tutto sconosciuto, esistente in forme simili-per quanto c’era dato sapere-in due parti del Mondo lontane, appartenenti oltretutto a culture basate su Panteon di divinità, ma di sicuro non intelligibili; per di più manifestazioni religiose perseguitate dalle autorità tradizionali. Se è vero che queste persecuzioni sono spiegabili, per quel che riguarda il ‘600 americano, con l’azione della Chiesa di Sua Maestà, queste repressioni sono del tutto inspiegabili per quel che riguarda l’epoca dei Signori del Gobi. Non si trova alcun tipo di testimonianza di organizzazione religiosa che faccia pensare ad un tipo di fenomeno di questo tipo. E questo rappresentava un mistero. Ma più grande ancora fu la straordinaria vicinanza delle due raffigurazioni. Ora, qualcuno obietterà che uno dei principi-base dell’antropologia moderna è, senza dubbio, l’esistenza di topoi culturali assoluti che caratterizzino l’essenza di culture diverse. Ma nessuna teoria di questo tipo può dare una spiegazione logica alle forme aliene che riconobbi in quelle due diverse esperienze. È il caso di dire che l’elemento “alieno” ad un impianto culturale qualsiasi, in parte conferma la suddetta regola dell’antropologia, dall’altro, inevitabilmente, fonda nuovi, inquietanti dubbi. Esiste una “super-cultura” di cui ancora non ci rendiamo conto? Le scienze, le arti, le vaste conoscenze dell’uomo finito, sono davvero arrivate al punto di massima espansione? (...)".

venerdì 4 dicembre 2009

Teatranti da piazza

Jeremiah Langley stava riponendo il suo violino nel suo sacco imbottito per tornare nel suo misero appartamentino nella periferia di Salem, ma non riusciva a smettere di lanciare occhiate cariche di rancore nei confronti del capo del suo piccolo gruppo di teatranti, che si era appena esibito nella piazza principale di Salem.
“Stronzo bifolco” pensava, mentre l’anziano parlottava amichevolmente con la bella ragazza che gli si era accostata; portava lunghi capelli mori pettinati all’indietro, ed un pregiato vestito da passeggio con tanto di cappellino abbinato. Sembrava una di fuori, non della cara Salem. Non una completa straniera, aveva l’accento della Costa, su quello non c’era dubbio. Forse era di più a nord; non di Innsmouth, di sicuro. Forse di Arkham.
Ma la sua attenzione non era per quella bellissima ragazza, e neppure per ciò che diceva. Il problema era che quel maledetto del capogruppo, quel Jack, si burlava di cose troppo grandi per lui. Raccontava a bocca sciolta troppe cose, troppi segreti; già era tanto farci uno spettacolo, figuriamoci andare in giro a fare la guida turistica alle signorine per bene venute da fuori… la leggenda di Keziah Mason e Goody Flower non era cosa da essere presa alla leggera, dannazione. Jeremiah aveva accettato di suonare nel gruppo folkloristico della città, che di tanto in tanto metteva in scena degli spettacoli di racconto musicale con la melodia del violino in sottofondo, perché pensava che fosse giusto per onorare la memoria di quelli che avevano impiccato le streghe di Salem nel 1692. Abitava a Salem da tutta la sua vita, cinquantacinque anni appena compiuti; so padre era di lì, suo nonno lo era, persino il suo trisavolo. Qualcuno diceva fosse stato un Langley ad avere le chiavi del carcere per tutto il periodo del famoso processo; figurarsi se non gliene importava, di una cosa tanto importante.
“Arrivederci” disse cortesemente la dolce ragazza, stringendo delicatamente la mano di Jack; si voltò tirandosi su la gonna del bel vestito, e prese a camminare veloce verso l’uscita dalla piazza. Jeremiah la osservò da lontano; si muoveva parlando con i suoi amici che l’avevano accompagnata. Poi l’anziano tornò a guardare Jack, e pensò di andargli a dire due parole nonostante sapesse bene che Jack non credesse a tutte quelle storie sulla fuga della vecchia Keziah ad Arkham. Poi lasciò perdere. Ma poi non poté fare a meno di pensare:
“Che si fotta, è lui quello che rischia di cadere nei tranelli del Diavolo!”.
Jeremiah si voltò tenendo la sacca del suo violino in mano e a lunghi passi s’incamminò verso un viottolo che correva parallelo alla via principale, per cui si era incamminata la ragazza con i suoi amici. Mani in tasca, sacca in spalla, l’anziano si muoveva fra le antiche case di Salem passando in rassegna le loro facciate storiche fatte di legno e pietra; legno e pietra che sudavano sangue, costruite dai Padri Pellegrini con immensi sacrifici e tristissime rinunce circa duecento anni prima quando dall’Inghilterra erano fuggiti del Massachussets. Sangue, pietra e legno: la loro storia. Per moltissimo tempo i suoi antenati avevano sfruttato quella terra, l’avevano piegata e ne avevano fatta un luogo che sarebbe piaciuto all’Onnipotente, ma anche lì i germi del Diavolo erano venuti fuori. La verità era che il Diavolo abitava diverse zone del Massachussets, la loro terra, e che c’erano le prove di questo. Fuori città potevano anche aver costruito i primi grattacieli, e la ferrovia poteva essere stata ampliata, ma ciò non cambiava nulla.
“Si ragazza mia” aveva detto quel bifolco di Jack alla ragazza del nord. “A Salem c’erano le streghe, e questa è la storia della vecchia Keziah Mason, e di Goody Flower, che venne giustiziata ad Arkham sulla Collina dell’Impiccata!”.
Pensando al tono di voce con cui Jack l’aveva detto, così allegro, così aperto, così gioioso, così dannatamente turistico, la paura di Jeremiah Langley aumentò e lui dovette fermarsi e sostare contro la parete del vecchio negozio degli Winston; sentì il bisogno profondo di dover fare qualcosa. Si chinò, e con l’indice della destra cominciò a incidere la terra smossa sul ciglio della strada. Pregava; la vecchia ode a San Giorgio. E piangeva, Jeremiah Langley, piangeva. Non c’era da ridere sulle streghe di Salem, proprio nossignore. Avevano corrotto le bambine, quelle innocenti creature, e le avevano fatte diventare anche loro indemoniate. Ciò fino al 1692, anno del sacrosanto processo.
Il suo dito agì da solo, e in un baleno segnò per terra l’unico simbolo che conoscesse e che potesse difenderlo dal Malocchio. Pregò San Giorgio; il vento freddo della sera d’ottobre lo sorprese alle spalle, sollevandogli le vesti e i capelli. Un brivido infernale lo scosse, strinse i denti per non lasciarsi andare per terra e rimanere in preda al panico. Avrebbe urlato, avrebbe scosso il suo corpo per scacciar via le fiamme dell’inferno che, era certo, lo avrebbero attanagliato di lì a poco. Sapeva che a Salem le cose non andavano; non andavano per nulla. La gente non diceva ma sapeva, cazzo. Sapeva che aveva avuto in passato quella Storia, e non c’era modo, per nessuno, per cancellarla. Gli studiosi, i cervelloni di New York, Philadelphia, Boston, avevano detto che tutta la storia delle streghe era una fandonia e che c’erano altre spiegazioni; la chiamavano isteria.
Porcate. A Salem le cose si sapevano bene; c’erano state le streghe, in città, che avevano portato la corruzione del Male. E questo nessun cervellone avrebbe potuto negarlo. Diec’anni prima c’era stata la Guerra in Europa, che aveva portato nella tomba metà dei ragazzi della città, e poi le pestilenze, e le malattie, avevano sempre portato sfortuna sulla popolazione. E questo lo sapeva, lo sapeva bene tutta la città. Anche se non voleva riconoscerlo.
***
Quand’ebbe finito, si riprese e ripartì verso casa sua con la certezza che una delle buone cene di sua moglie Beth avrebbe fatto passare tutto. Jeremiah rientrò così nella sua cucina, con l’anziana moglie che finiva di preparare la cena. L’odore era buono e Beth sempre dolce e sempre tenera, che voler di più?
“Abbiamo una bella notizia, caro” disse, venendogli incontro a braccia spiegate.
“Un’altra?” chiese lui, sorridendo. La prima era stata il fatto che la visita dal medico del giorno prima, che aveva fatto per sapere se si fosse ripreso dalla malattia che l’aveva tenuto a letto per mesi, aveva rivelato che il signor Langley non era mai stato tanto bene come allora. Arrivò la seconda, dalla bocca della moglie:
“La nostra Lucy e suo marito aspettano un altro bimbo, amore mio!”.
Il corpo anziano di Jeremiah Langley superò sé stesso, cingendo il corpo della sua Beth e quasi sollevandola da terra nell’abbraccio. La strinse a sé, la baciò con un ardore molto vicino a quello che li aveva animati quando erano giovani. Tutto quell’ardore era per la sua famiglia, e per la certezza di poter stare un altro po’ con loro, in felicità.
Un altro piccolo. Un altro cucciolo da tenere sulle ginocchia. Che meraviglia. Mangiò la zuppa con calma, rallegrandosi della notizia. Avrebbe voluto correre a casa di sua figlia e del genero per fare di persona le congratulazioni. Ci sarebbe andato la mattina dopo, di sicuro. Intanto, gioiva. Appena mangiato, la stanchezza lo prese. S’infilò subito il freddo pigiama, s’infilò presto sotto le coperte del letto matrimoniale, stremato ma felice. Sua moglie rimase giù in salotto, a filare, intonando una delle nenie che appartenevano al tempo in cui Lucy era piccola e loro dovevano cantare per farla dormire, anni prima. Jeremiah non pensò più a Keziah Mason e a Goody Flower, né alla città; non poteva farlo, era troppo felice. Sapeva di essere l’ultimo a crederci ancora, ma per quella sera non ce n’era bisogno. Voleva credere solo alla bella notizia che aveva sentito e al fatto che i medici gli avevano assicurato che avrebbe avuto ancora un bel po’ da vivere.
***
Quella notte, dormì tranquillo. Non si accorse degli occhi che lo spiavano dalla finestra della camera che dava sul vialetto nel retro; occhi di una creatura centenaria, un tempo umana. Occhi crudeli e malvagi. Occhi che guardarono là dentro solo per accertarsi di non aver sbagliato bersaglio. Nessuno sa cosa fece l’anziana creatura dagli occhi di vecchietta, ma malvagi. Tutti, però, il giorno dopo, seppero che Jeremiah Langley era morto nel sonno.

mercoledì 2 dicembre 2009

Fra le provette

Le altre ragazze del dormitorio femminile dormivano ancora; l’unica studentessa che avesse il coraggio di alzarsi alle cinque per andare avanti con il manuale di Biologia era proprio lei, Ellen, già vestita e pronta per affrontare la giornata. La stanza che occupava nella Dorothy Upman Hall, il nuovo dormitorio femminile del Campus, era un loculo in cui ci si poteva a malapena alzare in piedi, e nonostante i mobili al suo interno, l’armadio, il letto e la scrivania cui era seduta, fossero in legno, non le riusciva mai di riscaldarsi completamente. Le sarebbe piaciuto rimanere qualche ora in più al letto, ma sempre, verso quell’ora, il sonno se ne andava lasciandola sola nella stanzetta e lei non poteva far altro che vestirsi, prendere i suoi manuali e mettersi a studiare; la mensa era ancora chiusa: niente colazioneRipassò gran parte delle classificazioni delle strutture ossee dei mammiferi, così da avere già una qualche infarinatura quando, quel pomeriggio, si sarebbe messa a studiare seriamente.

Il fatto era che il latino non faceva per lei, e quasi tutti i nomi scientifici erano in latino; Mathilda Swansonn, una sua amica del corso, aveva studiato in Francia per cinque anni e lì aveva appreso il latino; andava al Ginnasio. Che fortuna, pensava spesso Ellen: niente memoria, niente memoria.
E poi, succedeva, per fortuna: si perdeva nei ragionamenti sulla materia per ore, ore ed ore finché non riusciva a comprendere almeno-almeno-in parte ciò che aveva di fronte agli occhi. E così, il tempo volava; le lancette dell’orologio si spostavano sulle sette e mezza del mattino. I corridoi della Miskatonic erano tutti uguali; legno, pareti bianche, modelli sempre simili per mobili e bacheche, più o meno lo stesso tipo di volantini. A volte, durante quella sua “vacanza-studio” ad Arkham, le sembrava che tutto fosse troppo standardizzato; triste; freddo. E non voleva mai pensare al laboratorio del professor Peslee, quindi. Lanciò uno sguardo su una bacheca affianco alle scale. Qualche volantino della squadra di football; l’annuncio che Hanna Baker, di Storia Moderna, si era persa una delle sue borsette da un milione di dollari; un nuovo avviso del professor Lawrance. Niente di nuovo. Scese la scala e incrociò, finalmente, qualche altro essere umano già sveglio. Il bidello, Mitchell, scorbutico e arrogante come al solito. La guardia giurata.
La colazione era composta da un toast bruciacchiato e uova strapazzate, un bicchiere d’acqua.
“Buongiorno!” la salutavano le compagne di corso che l’avevano seguita. Lisa Stephens, Mathilda Swansonn, Meryl Gallows. Amiche. “Amiche”. Qualche battuta, due chiacchiere scambiate velocemente, nient’altro. Nessuna notizia importante; sinceramente, a volte, Ellen aveva pensato che sarebbe stato divertente scoprire, una mattina, qualche infiltrazione di un ragazzo coraggioso in camera di una di loro. Almeno avrebbe interrotto quella routine fatta di lezioni, giornate-studio, poche passeggiate nel freddo glaciale di Arkham ottobrina.
Quella mattina, però, arrivava il clou: Peslee aveva indetto un consulto scientifico per discutere della star trovata il giorno prima giù al fiume, al Miskatonic. La star, sissignore. Una creatura enorme, che si diceva nessuno avesse mai visto. Una creatura grande, veramente grande, come un pallone aerostatico. Rosa. Completamente rosa. Enorme. Quelli dell’università l’avevano subito caricata sul camion del Dipartimento, quello che di solito si usava per le spedizioni scientifiche, ed erano corsi giù al Miskatonic pregustando la gioia della socperta. E poi, la sera prima, era arrivata la convocazione, direttamente alla sua porta:
“Richiesta presenza per consulto accademico in merito al programma di valutazione sul campo per i frequentanti conseguenti media alta”
Vittoria. Anzi, vittoria due volte; non sarebbe stata sola al Consulto, ma l’avrebbe raggiunta un’altra amica di Harvard. Anzi, non un’amica. Una delle donne più in gamba che avesse conosciuto.
****
Quando vide Janet Holmes, per la prima volta dopo due mesi, non seppe capire bene se fosse felice perché fosse davanti ad una campionessa nell’archeologia biologica o se fosse solo per l’aver visto un viso amico per la prima volta da quand’era ad Arkham. Fatto sta che sperò che la professoressa Holmes si ricordasse ancora di lei e corse a salutarla. Per fortuna. Si scoprì contenta di poterci parlare, di poterle chiedere cosa ci facesse lì. E quando lo scoprì, non vide l’ora di andare in quel laboratorio gelido a sezionale la star della settimana, la creatura del Miskatonic, per poi parlarne con Janet.
Al consulto c’erano invero altre tre persone. Tre persone che non gli piacevano, della Miskatonic. Dio, quella racchia di Mary Baker, la ricercatrice biologa più quotata del Masachusetts, così piena di sé da rendere snervante anche solo scambiare qualche parola amichevole con lei. La professoressa Baker era in verità molto rispettabile, era stata la prima donna ad essere ammessa presso la facoltà di Biologia come ricercatrice a capo di un’equipe quando Peslee aveva fondato il “settore ricerca”; la Baker e altri sei colleghi erano partiti con un battello e avevano circumnavigato la costa nordoccidentale dell’Africa portando poi con loro un’ingente quantità di materiale sulla fauna marina. Gli altri due non li conosceva bene ma aveva sentito parlar male di almeno uno di loro. Crown, il più anziano, doveva avere una settantina d’anni, ma alcuni dicevano che aveva ancora l’abitudine di fare apprezzamenti pesanti sulle ragazze. E poi c’era Feuerbach, il tedesco. Si chiedeva se ancora ci fosse un po’ di educazione in quel sacro tempio della scienza chiamato Università del Miskatonic, e se era così, era conveniente chiamare un insegnante “blocco di giaccio” standogli praticamente a due passi? Lui non se la prendeva, per lo meno, non era come la professoressa Beker, però era… deprimente.
Tutto sommato, ogni remora passò quando si ritrovarono proprio al centro del dibattito; era affascinante sentire tutte quelle ipotesi sul “cosa” potesse essere la Bestia del Miskatonic. Avrebbe voluto avere già la laurea in tasca per lavorarci su da sola, o a capo della sua equipe, ma al tempo stesso avere tutta la conoscenza di quei tre docenti. Cervelloni, erano dei cervelloni. Pensava che tutto, in America, sarebbe sempre andato per il meglio per merito di persone come quelle, istruite ed intelligenti, fredde, ma preparate. D’altro canto, Ellen aveva voluto fare carte false per studiare solo per un motivo: diventare come loro. Non dover più vivere dove viveva. Frequentare qualche bel circolo di scienziati e far vedere a molti superficialotti che permeavano l’ambiente quanto in alto ci si potesse alzare con le proprie forze. Un vecchio adagio diceva “A che serve piangere quando si può sudare sangue e sollevare il mondo?”. Non ricordava chi l’avesse scritto. Ci pensava, stranamente, mentre infine l’equipe tornava verso il laboratorio di Peslee. Verso la creatura del Miskatonic. Verso la star.
Allora scoprirono Proctor, l’assistente del professor Peslee. Non c’aveva mai parlato molto, né gli era mai stato particolarmente simpatico; ma diavolo… non era forse orribile? Dio, si era impiccato mentre loro erano di là…

lunedì 30 novembre 2009

Stanza 31

Janet dormiva nella Stanza 31 del Tiden Arms. Sola, perché Alexander, Lilyan e quell’ombroso del vescovo Giraud erano dovuti andare a Salem per sistemare le faccende legali. Le faccende legali, piene di stranezze; lo zio di Alexander si chiamava Silas, ed era morto cadendo dalle scale. Cadendo dalle scale, si, così aveva detto il coroner; e loro erano venuti ad Arkham perché Alexander aveva ereditato una casa fuori città. Una casa grande in cima alla collina, ai piedi dei monti, circondata dai boschi. Quando Nichols, il rappresentante dello Studio Legale ce li aveva accompagnati, quel giorno, a vedere di cosa si trattasse, si era aspettata una casa per lo meno decente, pensava che Nichols avesse esagerato dicendo che “cadeva a pezzi”, magari voleva costringere Alexander a cedergliela, si sa come sono fatti alcuni avvocati spuntati così, fuori dal nulla, no?
Invece la casa era proprio brutta, cadeva veramente a pezzi. Le assi di legno, dappertutto, erano divelte e rovinate, ragnatele ovunque, in certi punti della casa la polvere sembrava un mare. E poi, certo, la cosa peggiore; il bagno. Lei e Lilyan erano entrate assieme ad Alexander, per vedere cosa ci fosse dentro; non l’avessero mai fatto, dannazione.
Il bagno della scuola” aveva pensato subito. Si, il bagno della scuola elementare in cui era andata da piccola aveva un odore simile a quello; quando l’aveva sentito si era chiesto se quel tanfo si meritasse l’aggettivo “di escrementi”, più consono al suo rango sociale alla sua educazione, oppure se fosse giusto chiamarlo “puzza di merda”. Aveva optato per la seconda. Era giusto così.
Già era terribile questo, che vomitassero. Vomitare non era bello; non era bello esteticamente, perché inzaccheravi il pavimento con tutto quello che avevi mangiato- Dio, che avevi mangiato. E poi, non era bello perché era violento. Come se qualcuno ti avesse infilato una mano in gola per portarti fuori tutto quello che hai dentro. Violenza, aveva pensato Janet. Si ricordò che, da piccola, al suo settimo compleanno, aveva vomitato la torta. Era stato terribile, era scoppiata a piangere e aveva sperato che la madre corresse a coccolarla dopo una cosa tanto brutta; invece, guarda un po’, la mamma l’aveva sgridata e le aveva dato uno scappellotto sulla testa… meno male che bambina non lo era più.
Poi, era successa l’altra cosa. Ma quella che era stata una sciocchezza, senza dubbio. Uno spavento tremendo, certo, ma senza dubbio irreale; forse, una svista. Certo, le sviste non si hanno in due… lei e Lilyan avevano veramente visto qualcuno, nel bosco, dopo che erano uscite fuori a prendere una boccata d’aria per riprendersi. Però era stato un flash. Non voleva più pensarci.
Ora voleva andare in bagno, si era svegliata apposta, nel cuore della notte, perché doveva andarci. Doveva essere veramente molto tardi, accidenti. Per strada sembrava che non girasse nessuno. Le due, le tre? Forse anche prima. Arkham era piccola, che diavolo c’andava a fare la gente in giro alle tre del mattino? Non c’era nulla di ché, ad Arkham.
S’infilò le grandi pantofole, poi si mosse verso la porta chiusa. E allora, si fermò.
La luce era accesa, fuoriusciva da sotto la porta. Ecco, era successo: talmente stanca da dimenticarsela accesa quando si era andata a lavare i denti. Tombola. Ci rise su, tutto sommato che altro poteva fare? Ciabattò fino alla porta; e lì, qualcosa la portò a chinarsi davanti alla serratura per guardarci dentro.
Perché? Perché si, non c’era motivo, voleva farlo. Dentro il buco della serratura era tutto buio. Ma se sotto si vede spuntar la luce… ah, già, che stupida… la chiave dentro. La chiave è rimasta infilata dall’altra parte.
Aprì.
Ora, si chiedeva, perché questo?
Guardò dentro la stanza; guardò verso il grande specchio sopra il lavandino. Dritta di fronte a sé.
Cosa mi ricorda…
Perché, ora, si ritrovava davanti qualcosa di così folle? Perché?
Cosa diavolo mi ricorda…
Il volto. Ciò che era apparso nel grosso specchio, il cui vetro si era fatto scuro (“fuliggine”?), era un volto umano. Anziano e barbuto. Imperioso, metteva soggezione; gli occhi, gli occhi erano grandi e spalancati; la guardavano. Spiritati, la guardavano. Sembrava un film del cinematografo, ma era… più vero.
Perché questo? Che cosa… è lui, nello specchio?
Ma era dentro la stanza? No, non era dentro la stanza, non era un riflesso, perché la fuliggine aveva oscurato tutto; e poi, il volto era troppo grande… troppo grande… e non aveva il collo, sotto la testa, e neppure il corpo, niente mani, niente, niente, niente…
È nella stanza, con me! E ora, cosa…
E ora cosa diavolo succedeva? Sentiva freddo ai piedi. Freddo sui calcagni, perché le pantofole erano scalcagnate, di quelle invernali.
Abbassò lo sguardo.
No, non freddo… solo, viscidume… il liquido era caldo, tutto sommato…Caldo come il sangue di cui era riempito il fondo della stanza.
Merda, sangue.
E nel sangue, pesci morti.
Pesci mordi, Dio onnipotente ed eterno.
Pesci morti. Pesci morti. Pesci morti.

Chiuse la porta.
<> urlò, andando verso la porta della stanza. La porta della stanza. La porta. Non quella del bagno, quella faceva male. Tanto male. La porta della stanza, invece, era la salvezza. Salvezza. Salvezza. Aprì la porta
Si svegliò di nuovo nel suo letto, sudata. Nel suo letto, nella sua stanza d’albergo. Al Tidden Arms di Arkham, terzo piano.
Guardò la porta del bagno.
Era spalancata. La luce spenta.